Si immagina il Liceo Classico come una scuola dove studenti occhialuti, in aule polverose, si ingobbiscono su testi ammuffiti, scritti millenni fa; i nostri liceali, invece, partecipano alle Olimpiadi della Matematica, rappresentano, a New York, uno Stato e simulano una seduta delle Nazioni Unite in inglese, insieme a coetanei provenienti da ogni parte del mondo, discutono in un debate sostenendo una tesi e confutando l’ antitesi con valide argomentazioni. E’ un indirizzo di studi che si prefigge di educare, formare giovani menti, mediante l’ uso delle parole, soprattutto quelle di scrittori che, in un tempo lontano, hanno provato sentimenti, sensazioni, stati d’ animo, gli stessi che viviamo noi, oggi, a secoli di distanza. La padronanza di queste lingue definite “morte” impropriamente, dal momento che i morti non parlano, mentre il greco e il latino ci trasmettono un universo di emozioni, ci permette di immedesimarci in contesti e frangenti diversi, consentendoci di essere a nostro agio in qualunque situazione, grazie anche alla più profonda comprensione dell’ italiano, figlio del latino e parente stretto del greco. Queste lingue non ci restituiscono solo l’ incanto di un’ assolata giornata estiva, col frinire fitto delle cicale sulle rive del fiume Cefiso, presso Atene, o l’ atmosfera crepuscolare di una campagna in cui i tetti dei casolari sfumano nelle ombre lunghe della notte, ci permettono, soprattutto, di conoscere noi stessi, attraverso il pensiero dei nostri progenitori, le cui parole vincono “di mille secoli il silenzio”.